“La catastrofe è la condizione di vita e il modo normale di esistenza del capitale nella sua fase finale”. (Rosa Luxemburg)
Siamo contro la guerra, non siamo pacifisti.
La guerra è la manifestazione più brutale e violenta del dominio di classe. E’ lo sfruttamento nella sua forma più intensiva e contemporaneamente estensiva. E’ ontologia del capitale, il più brutale processo di distruzione e creazione. La guerra è l’esito logico di ogni suprematismo, di ogni nazionalismo, di ogni sovranismo: è immanente alla forma stato stessa, alla sua inalienabile volontà di dominio sull’altro da sé per domarlo, annichilirlo, annetterlo. Affermazione di potere, non di potenza.
Siamo contro la guerra perché crediamo fermamente nell’autodeterminazione dei popoli, nel loro diritto a rivendicare autonomia e indipendenza. Questo vale per la società ucraina, nei confronti dello stato aggredito come di quello aggressore, come vale per il sostegno popolare alle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk.
Siamo contro questa guerra, perché siamo contro ogni forma di occupazione militare di un territorio. Non siamo noi a dover riaffermare il diritto delle popolazioni ad opporsi: è un fatto che si esercita. Ogni popolazione si difende, se può e come può, da un’aggressione, a Kiev come nel Donbass. Ma sono le effettive condizioni di possibilità a fare la differenza. Ciò che desta inquietudine sono le disgraziate sorti di questo lembo di terra, che sembrano avviluppare anche pulsioni di emancipazione. Sorti inestricabilmente legate ai feroci processi di accaparramento delle ricchezze e di ridefinizione del potere dopo la dissoluzione dell’Urss, condotti spesso nell’ombra e a mano armata.
Questa guerra non è un dramma composto da un solo atto. E’ l’esito di una invasione militare, che Putin ha scatenato contro l’Ucraina con il suo carico di drammatiche conseguenze, soprattutto nei confronti della popolazione civile. Sappiamo bene che un conflitto del genere muove e muoverà un’enorme massa di profughi. Le istituzioni europee offrono alla propaganda il volto dell’accoglienza, della solidarietà e dell’inclusione, ma ai confini della Polonia e degli altri paesi dell’Est è il cupo profilo della fortezza Europa che ben distinguiamo, con l’orribile razzializzazione, la discriminazione su base etnica, a seconda del colore della pelle, di quanti sono costretti a migrare.
E’ però anche l’esito ultimo e prevedibile di un’altra occupazione militare, quella della Nato, che attraverso le sue strategie espansionistiche – sempre collegate a rilevanti interessi economici – determina la militarizzazione dei territori e la loro sottrazione ai reali bisogni sociali, alimenta i nazionalismi e le politiche guerrafondaie, produce disequilibri che segnano la vita di intere popolazioni. Per quanto ci riguarda da sempre siamo per lo scioglimento del Patto Atlantico e per l’uscita dell’Italia dalla NATO, contenuto dal quale crediamo che non possa prescindere una reale presa di parola all’interno dell’attuale stato di guerra.
La storia è complessa e non coincide mai con la narrazione bellica, né con quella di chi racconta ai russi una missione di pace, spedendo soldati al fronte per uno scontro fratricida, né con la narrazione atlantista. Quest’ultima fa di questo conflitto un’ennesima guerra per procura ed uno scontro di matrice ideologica. La libertà, la democrazia, la società aperta, in una parola il sistema liberale contro la violenza di uno stato autoritario, di un regime autocratico e illiberale. Il bene contro il male. Come ai tempi di Reagan e della cortina di ferro.
Qui però non ci sono né angeli né demoni, ma due politiche imperiali ideologicamente contrapposte ma economicamente, soprattutto finanziariamente, intrecciate. Non vi è un fuori dalla globalizzazione, ma solo interessi capitalistici che si scontrano.
Ecco perché non saliamo sugli spalti dei supporter di Putin e neanche su quelli della Nato. Non abbiamo nulla a che fare con un autocrate, nazionalista, neozarista che s’ispira a Pietro il Grande, né abbiamo intenzione di metterci l’emetto e partecipare all’esaltazione isterica occidentale per queste nuove radiose giornate di marzo, cantando le lodi di chi su politiche coloniali e imperialistiche ha costruito la propria supremazia mondiale.
Si potrebbe dire che il problema forse è proprio questo, la supremazia. L’occidente sta tramontando. Il suo ruolo storico di demiurgo della geopolitica globale si è esaurito. L’idea di un mondo unipolare sotto la politica economico-culturale “made in USA” e l’ombrello militare della NATO non esiste più da un pezzo. Non prenderne atto significa trascinare il mondo in una guerra globale permanente, all’interno della quale i conflitti anziché essere mediati vengono premeditatamente alimentati ed approfonditi o, meglio ancora, vietnamizzati – Kiev come Kabul o Aleppo – in modo da renderli ancora più lunghi e più sanguinosi, quando questo risponde alle esigenze di ridefinizione geopolitica e delle aree di mercato e di approvigionamento.
Lo stato di guerra non è solo il piombo e il sangue lungo le strade di Kharkiv o Mariupol; non è solo la durissima repressione che i manifestanti russi stanno subendo o la propaganda atlantica che sembra una brutta copia di quella maccartista; non è solo la rinnovata e folle corsa verso gli armamenti in tutta Europa o la dichiarazione da parte del Governo Draghi di un nuovo e inaccettabile stato di emergenza. Lo stato di guerra è anche la politica energetica che si mette l’elmetto e va alla conquista di petrolio, gas e carbone. Questa è una guerra per il fossile e contro la transizione ecologica. La smilitarizzazione non è solo una politica contro le lobby economiche delle armi e contro il terrore nucleare, ma è anche una politica ecologica, in quanto mette al bando quelle materie prime e quel sistema produttivo su cui si basa l’industria bellica.
Non siamo pacifisti. Siamo contro la guerra. Ma siamo anche dentro la guerra. E’ necessario cambiare la visuale perché le forme e le modalità di opposizione ad una guerra “esterna” non possono essere le stesse che è necessario mettere in campo quando sei “dentro” lo stato di guerra. Dentro la guerra gli arruolamenti sono forzati, forse non con la coscrizione obbligatoria, ma con l’imposizione del discorso dominante che funzionalizza il tutto, anche quel pacifismo che per non essere divisivo omette contenuti irrinunciabili, come l’opposizione all’invio di armamenti, la contrarietà alla Nato, la critica verso misure che sono destinate ad affamare i popoli piuttosto che i potenti, la necessità di confliggere con una nuova legislazione di emergenza che ripristina anche formalmente e ideologicamente la legittimità dello “sforzo bellico”.
Dentro lo stato di guerra l’idea di pace è già sussunta in partenza, è l’idea di una “pace armata” che si schiera con le ragioni di parte e con la responsabilizzazione nel conflitto.
In questo momento più che di auspici di pace abbiamo bisogno di resistenza alla guerra, anzi di “renitenza” alla guerra come rifiuto da ogni arruolamento nel conflitto, come sottrazione dall’etica del sacrificio come sostegno allo sforzo bellico che già nella propaganda di guerra si sta facendo strada, chiedendoci di respirare di nuovo carbone e di sostenere un aumento dei costi per il soddisfacimento delle esigenze primarie inaccettabile.
“Guerra alla guerra” si sarebbe detto un tempo. Ma d’altra parte in questo straordinario ritorno ai tamburi di guerra e in questa repentina resurrezione di linguaggi bellici rinverditi attraverso la comunicazione digitale, cosa è davvero il vecchio e cosa è davvero il nuovo?
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